TRIBUNALE ORDINARIO DI CATANZARO 
    Ufficio dei giudici per le indagini e l'udienza preliminare  
 
    Il Giudice, dott. Matteo Ferrante, 
    Visti gli atti del procedimento penale  di  estremi  indicati  in
epigrafe; 
    Vista la richiesta di rinvio a giudizio presentata  dal  pubblico
ministero in relazione reati di cui all'art. 323 c.p.; 
    Visto l'art. 23, comma 1, decreto-legge n. 76 del 16 luglio  2020
(Gazzetta  Ufficiale  16  luglio  2020,  n.  178),   convertito   con
modificazioni, dalla legge 11  settembre  2020,  n.  120,  avente  ad
oggetto  «misure  urgenti  per  la  semplificazione  e  l'innovazione
digitale (decreto Semplificazioni)»; 
    Udite   le   conclusioni   rassegnate   all'esito    dell'udienza
preliminare tenutasi in data odierna, 
 
                          Osserva e rileva 
 
1. I fatti oggetto di giudizio. 
    A seguito di rituale richiesta, il  pubblico  ministero  chiedeva
l'emissione del decreto che dispone il giudizio nei confronti  di  V.
M., P. C. M., R. M. Z. R. e D'A. C., ritenuti responsabili di plurime
condotte di abuso d'ufficio. 
    Secondo la prospettazione accusatoria, gli imputati R., V. e P. -
in  qualita'  di  membri  della  commissione  esaminatrice   nominata
nell'ambito  di  una  procedura  concorsuale   indetta   dall'azienda
ospedaliera   «...»   di   ........   avrebbero   indebitamente    ed
illegittimamente favorito i coimputati D'A. e Z., garantendone  prima
nell'ammissione,  sebbene  privi  di  titoli,  e  successivamente  il
superamento della predetta procedura  concorsuale,  attribuendo  agli
stessi un punteggio maggiore rispetto a quello riconosciuto ad  altri
candidati in possesso  di  titoli  equipollenti  se  non  addirittura
superiori. 
    In particolare, dall'attivita' di indagine e' emerso che: 
        sul B.U.R.C. n. 72 del 4 luglio 2016,  l'azienda  ospedaliera
«...» aveva pubblicato un avviso  di  selezione  pubblica,  per  soli
titoli, per il conferimento di un incarico a  tempo  determinato,  in
sostituzione del personale assente, per la  posizione  funzionale  di
«dirigente medico, disciplina medicina e chirurgia  dell'accettazione
d'urgenza»; 
        l'art. 3 del bando indicava espressamente, tra i requisiti di
ammissione,  il  possesso  della  specializzazione  in  «medicina   e
chirurgia dell'accettazione d'urgenza» o in altra disciplina ad  essa
equipollente; 
        alla procedura concorsuale prendevano complessivamente  parte
35 candidati, tra cui gli imputati D'A. e Z.; 
        con deliberazione del 12 settembre 2016  veniva  nominata  la
commissione esaminatrice, composta dagli imputati R., V. e P.; 
        il successivo 3 ottobre 2016, si insediava la  commissione  e
procedeva alla valutazione delle domande pervenute. Nel  corso  della
seduta veniva formato un primo  elenco  contenente  i  nominativi  di
tutti i partecipanti alla procedura concorsuale e l'indicazione,  per
ciascuno di essi, del possesso o meno dei requisiti di ammissione: in
questo primo elenco venivano esclusi 10 candidati (tra  i  quali  gli
imputati   D'A.   e   Z.),   poiche'   ritenuti   sprovvisti    della
specializzazione   in   «medicina   e   chirurgia   dell'accettazione
d'urgenza» ovvero di altra specializzazione ad essa equipollente; 
        tuttavia, successivamente, veniva formato un secondo  elenco,
recante la dicitura «candidati con titolo di ammissione» in cui,  per
contro,  figuravano  anche  D'A.  e  Z.,  rispetto  ai  quali  veniva
indicato, quale requisito di ammissione, la  dicitura  «servizio»  in
luogo del precedente  giudizio  negativo  circa  l'insussistenza  dei
titoli necessari  per  prendere  parte  alla  procedura  concorsuale;
correlativamente, i predetti imputati, e solo  i  predetti  imputati,
venivano  espunti  dall'ulteriore  elenco   relativo   ai   candidati
definitivamente  esclusi  dalla  procedura  per  mancanza  di  titoli
legittimanti; 
        anche l'attribuzione del punteggio ai predetti candidati D'A.
e Z. non appariva scevra da anomalie:  infatti,  agli  stessi  veniva
attribuito il massimo punteggio per aver prestato progresso  servizio
dirigenziale nella stessa disciplina oggetto di concorso, quando,  in
realta', i due candidati non avevano svolto attivita'  in  tal  senso
assimilabile; inoltre, al D'A. veniva attribuito ulteriore  punteggio
per alcune pubblicazioni non menzionate nel curriculum vitae,  mentre
la Z. riceveva un elevatissimo punteggio per il proprio curriculum in
assenza di qualsivoglia motivazione; 
        per effetto di tali illegittimita', il D'A. e la Z.  venivano
collocati,  rispettivamente,  al  quarto  ed  al  primo  posto  della
graduatoria definitiva, approvata con determina n. 1  del  9  gennaio
2017, entrambi in posizione utile in relazione  al  numero  di  posti
messi a concorso; 
        il prosieguo dell'attivita' di  indagine  confermava  che  le
reiterate illegittimita'  che  avevano  caratterizzato  la  procedura
concorsuale erano  state  poste  in  essere  al  dichiarato  fine  di
assicurare  l'assunzione  dei  candidati  D'A.  e  Z.  poiche'   gia'
conosciuti  dalla  dirigenza:  infatti,  diverso   personale   medico
riferiva degli ottimi rapporti intercorrenti tra i due candidati e la
P. (membro della commissione esaminatrice), tanto  che  quest'ultima,
in piu' occasioni, aveva manifestato senza remore la  sua  intenzione
di stabilizzare ed internalizzare i due candidati che, di fatto, gia'
prestavano  servizio  in  regime  di  convenzione  con  la  Struttura
ospedaliera. 
    Sulla  scorta  di  tali  emergenze,  il  pubblico  ministero   ha
contestato agli odierni imputati plurime condotte di abuso  d'ufficio
ai sensi dell'art. 323 c.p.: in particolare, per quanto  qui  rileva,
e' stata dedotta la violazione del dovere di imparzialita' e di  buon
andamento   della   pubblica   amministrazione   (art.    97    della
Costituzione), anche in materia di  procedure  ad  evidenza  pubblica
(art. 35, comma 3, lettera A), testo unico  pubblico  impiego)  e  di
specifiche norme di rango regolamentare in materia  di  requisiti  di
legge  per  poter  prendere  parte  alle  pubbliche  selezioni  e  di
attribuzione dei punteggi di merito (art. 8, decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 487/1984; art. 11, decreto del  Presidente  della
Repubblica n. 483/1997). 
    Come si e' visto, secondo  la  prospettazione  accusatoria,  tali
violazioni di  norme  di  legge  e  di  regolamento  sarebbero  state
dolosamente ed intenzionalmente poste  in  essere  dalla  commissione
aggiudicatrice  per  assicurare  l'assunzione   dei   due   candidati
ancorche' sprovvisti financo dei requisiti minimi per poter  prendere
parte alla procedura concorsuale. 
    Fissata l'udienza preliminare, nelle more e'  intervenuto  l'art.
23, comma 1, decreto-legge 16 luglio 2020,  n.  76,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120  -  disposizione
della cui legittimita' costituzionale in questa sede si dubita -  che
ha  riscritto   la   fattispecie   incriminatrice,   circoscrivendone
profondamente  l'ambito  di  operativita',  di  fatto  depenalizzando
condotte quali quella oggetto del presente giudizio. 
    La citata disposizione ha modificato la  previgente  formulazione
dell'art. 323 del codice penale (a tenore della quale «salvo  che  il
fatto non costituisca un piu' grave reato, il  pubblico  ufficiale  o
l'incaricato  di  pubblico  servizio  che,  nello  svolgimento  delle
funzioni o del servizio,  in  violazione  di  norme  di  legge  o  di
regolamento,  ovvero  omettendo  di  astenersi  in  presenza  di   un
interesse proprio o di un  prossimo  congiunto  o  negli  altri  casi
prescritti, intenzionalmente procura a se' o  ad  altri  un  ingiusto
vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un  danno  ingiusto  e'
punito con la reclusione da uno  a  quattro  anni»),  sostituendo  la
locuzione «in violazione di norme di  legge  o  di  regolamento»  con
quella piu'  restrittiva  «in  violazione  di  specifiche  regole  di
condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di
legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'». 
    La novella, non ulteriormente modificata  in  sede  di  legge  di
conversione, restringe la fattispede  operando  un'abolitio  criminis
parziale, operando su 3 distinti fronti: a) rispetto all'oggetto,  la
violazione commessa dal pubblico soggetto deve riguardare una  regola
di condotta (e non ad es. una regola  di  natura  organizzativa);  b)
rispetto alla fonte, tale regola violata  deve  essere  specifica  ed
espressamente prevista da una fonte di rango ordinario,  cioe'  dalla
legge o da un atto avente forza di legge, con esclusione delle  norme
regolamentari; c) rispetto al contenuto, la regola non deve  lasciare
spazi di discrezionalita'. 
2. Sulla rilevanza della questione. 
    La novella assume rilievo  decisivo  nell'economia  del  presente
giudizio: infatti, tenuto conto della fase  in  cui  il  processo  si
trova, appare evidente come, in difetto di essa,  dovrebbe  emettersi
il decreto che dispone il giudizio. 
    E' pacifico ed incontroverso che,  nel  tenore  della  previgente
formulazione dell'art. 323 c.p., le condotte contestate agli imputati
fossero idonee ad integrare il delitto di abuso d'ufficio, specie ove
si consideri, a tacer d'altro, che, per giurisprudenza  costante,  in
tema di abuso di ufficio, il requisito della violazione di legge puo'
consistere anche nella inosservanza dell'art. 97 della  Costituzione,
nella parte immediatamente precettiva che  impone  ad  ogni  pubblico
ufficiale, nell'esercizio delle sue funzioni, di non usare il  potere
che la legge gli conferisce per  compiere  deliberati  favoritismi  e
procurare  ingiusti  vantaggi  ovvero  per  realizzare   intenzionali
vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti  danni  [ex  multis
Cass., II, 27 ottobre 2015, n. 46096]. 
    In altri termini, la copiosa giurisprudenza formatasi in  materia
prima  della  recente  novella  legislativa,  riteneva  integrato  il
requisito della «violazione di norme di  legge»,  necessario  per  la
configurazione  della  fattispecie   incriminatrice   dell'abuso   di
ufficio, anche dalla violazione dei principi di imparzialita' e  buon
andamento della pubblica amministrazione. 
    Nella vicenda per cui si procede  le  condotte  poste  in  essere
dagli imputati si appalesano in contrasto  sia  con  norme  di  legge
(art. 97 della Costituzione) che di regolamento (art. 8, decreto  del
Presidente  della  Repubblica  n.  487/1984;  art.  11,  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 483/1997), a fronte  delle  quali  gli
elementi raccolti in corso di indagine costituiscono base idonea  per
sostenere in sede  dibattimentale  che  tali  illegittimita'  fossero
intenzionalmente finalizzare a recare vantaggio ad  alcuni  specifici
soggetti. 
    Pertanto,  sulla  scorta  degli  atti  acquisiti  al   fascicolo,
dovrebbe emettersi decreto che dispone il giudizio,  atteso  che  gli
elementi raccolti in fase di indagini rendono evidente la  necessita'
del vaglio dibattimentale, restando, dunque, preclusa l'emissione  di
sentenza di non luogo a procedere. 
    Del resto, la delibazione del  giudice  dell'udienza  preliminare
non ha quale oggetto  una  pronuncia  riguardante  l'innocenza  o  la
colpevolezza   dell'imputato   bensi'   l'inutilita'   o   meno   del
dibattimento per affermare la prima  evenienza:  infatti,  attesa  la
funzione di «filtro» svolta dall'udienza preliminare, ai  fini  della
pronuncia della sentenza di  non  luogo  a  procedere,  il  Gup  deve
valutare,  sotto  il  solo  profilo  processuale,  se  gli   elementi
probatori  acquisiti  risultino   insufficienti,   contraddittori   o
comunque inidonei a sostenere l'accusa  in  giudizio,  esprimendo  un
giudizio prognostico circa l'inutilita' del dibattimento, senza poter
effettuare una complessa ed approfondita disamina del merito  [Cass.,
II, 5 novembre 2015, n. 46145]. 
    Alla stregua  di  tali  principi,  tenuto  conto  della  mole  di
elementi raccolti  in  corso  di  indagine  a  carico  degli  odierni
imputati,  non  potrebbe  certamente  effettuarsi  una  prognosi   di
inutilita' del dibattimento,  indispensabile  per  l'emissione  della
sentenza di non luogo a procedere. 
    In tale contesto, pertanto, s'imporrebbe  il  rinvio  a  giudizio
degli imputati. 
    Tuttavia, tale eventualita' appare  preclusa  per  effetto  della
novella legislativa che ha operato una  sostanziale  depenalizzazione
delle condotte qui contestate: infatti, venuta meno  la  possibilita'
di ritenere integrato l'abuso d'ufficio  dalla  violazione  di  norme
avente rango regolamentare (l'attuale formulazione dell'art. 323  del
codice penale  non  contempla  piu'  la  violazione  di  regolamento)
neppure le  residue  norme  di  rango  legislativo  e  costituzionale
richiamate nel capo d'imputazione (art. 97 della  Costituzione;  art.
1, legge n. 241/1990, art. 35,  comma  3,  lettera  A),  testo  unico
pubblico impiego) appaiono idonee ad integrare la  novellata  ipotesi
di abuso d'ufficio, trattandosi di disposizioni  recanti  principi  a
cui deve uniformarsi  l'azione  amministrative  e  non  di  norme  di
condotta dalle  quali  non  residuino  margini  di  discrezionalita';
elemento,  questo,   indispensabile   per   ritenere   integrata   la
fattispecie incriminatrice cosi' come riformulata per  effetto  della
novella legislativa. 
    Stando cosi' le cose, per  effetto  della  novella,  il  giudizio
dovrebbe essere definito in udienza preliminare con sentenza  di  non
luogo a procedere perche' il fatto non e' piu' previsto  dalla  legge
come reato. 
    Da qui la rilevanza  della  proposta  questione  di  legittimita'
costituzionale. 
3. Sulla non manifesta infondatezza della questione. 
    La novella legislativa si appalesa in contrasto con plurime norme
di  rango  costituzionale,  sia   per   quanto   concerne   l'aspetto
procedurale,   relativo   all'adozione   per   il   tramite   di   un
decreto-legge, sia per quanto concerne il suo contenuto sostanziale. 
3.1. Violazione  dell'art.  77  della  Costituzione:  l'eterogeneita'
della materia trattata. 
    La norma qui censurata, che ha di fatto depenalizzato gran  parte
delle ipotesi  in  precedenza  ricondotte  alla  fattispecie  di  cui
all'art. 323 c.p., e' stata introdotta con il decreto-legge 16 luglio
2020, n. 76 (in Supplemento ordinario n. 24 alla Gazzetta  Ufficiale,
16 luglio 2020, n. 178), convertito, con modificazioni,  dalla  legge
11  settembre  2020,  n.  120,  recante  «misure   urgenti   per   la
semplificazione e l'innovazione digitale (decreto Semplificazioni)». 
    Il   ridetto   decreto,   adottato   a   seguito   degli   eventi
epidemiologici che hanno coinvolto l'intero paese, e' stato  motivato
dalla ritenuta «straordinaria  necessita'  e  urgenza  di  realizzare
un'accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso
la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e
di edilizia, operando senza pregiudizio per i presidi di  legalita'»,
nonche'   dalla   necessita',   ritenuta   anch'essa    cogente    ed
indifferibile,   di    «introdurre    misure    di    semplificazione
procedimentale  e  di  sostegno  e  diffusione   dell'amministrazione
digitale,  nonche'  interventi  di  semplificazione  in  materia   di
responsabilita'  del  personale  delle  amministrazioni,  nonche'  di
adottare  misure  di  semplificazione   in   materia   da   attivita'
imprenditoriale,  di  ambiente  e  di  green  economy,  al  fine   di
fronteggiare  le  ricadute   economiche   conseguenti   all'emergenza
epidemiologica Covid-19» [cosi', testualmente, il preambolo posto  in
epigrafe al decreto]. 
    Coerentemente  con  tale  contesto,  ritenuto  emergenziale,   il
ridetto decreto ha introdotto, da un  lato,  molteplici  disposizioni
volte a  semplificare  le  procedure  amministrative  in  materia  di
contratti   pubblici,   edilizia,    organizzazione    del    sistema
universitario ed il Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, nonche'  le
procedure in materia  di  attivita'  di  impresa,  ambiente  e  green
economy; dall'altro, sono state introdotte misure volte  al  sostegno
ed alla diffusione dell'amministrazione digitale. 
    Ora, appare evidente  come,  rispetto  tali  disposizioni  ed  al
contesto emergenziale che la  ha  determinate,  la  disposizione  qui
censurata appaia del tutto eccentrica ed assolutamente  avulsa  dalle
ragioni giustificatrici della normazione adottata  in  via  d'urgenza
dal Governo. 
    Infatti, se gia' puo' ritenersi  opinabile,  se  non  addirittura
impossibile, che un intervento volto ad operare una  depenalizzazione
parziale possa rivestire i caratteri di necessita' e di urgenza  tali
da legittimare la procedura per decreto, nella  vicenda  per  cui  si
procedere e' palese che esso non abbia alcuna attinenza rispetto alla
necessita', posta  a  fondamento  della  decretazione  d'urgenza,  di
introdurre procedure di semplificazione amministrativa e di  rilancio
economico per il rilancio del paese. 
    Si tratta, dunque, di disposizione  diversa  per  materia  e  per
finalita',  che  denota  la  sua  evidente  estraneita'  rispetto  ai
contenuti e agli obiettivi del decreto-legge in cui  detta  norma  e'
stata inserita. 
    La predetta disposizione reca un  contenuto  i  cui  elementi  di
eterogeneita' si pongono in netta  cesura  con  il  resto  del  corpo
normativo in cui sono contenute. 
    Del  resto,  la  disomogeneita'  della   disposizione   impugnata
rispetto al decreto-legge che l'ha  introdotta  assume  caratteri  di
assoluta evidenza anche alla luce della portata della riforma e della
delicatezza e complessita' della materia incisa: si tratta,  infatti,
di una novella  abrogatrice  che  circoscrive  in  maniera  oltremodo
limitativa il perimetro applicativo dell'art. 323 c.p., rendendola di
fatto, per come si vedra', una disposizione inapplicabile. 
    Una tale e penetrante e  incisiva  riforma,  implicante  delicate
scelte di natura politico-criminale, avrebbe  richiesto  un  adeguato
dibattito parlamentare, certamente possibile ove si  fossero  seguite
le ordinarie procedure di formazione della legge, ex  art.  72  della
Costituzione. 
    La  norma  qui  censurata,  incidendo  in  materia  penale  sulla
fattispecie di abuso d'ufficio, per la quale non sussiste il medesimo
presupposto  della  necessita'  temporale  ritenuta  per  gli   altri
interventi  avrebbe,  quindi,  potuto  essere  oggetto  del   normale
esercizio del potere di iniziativa legislativa. 
    Si presenta,  dunque,  una  insanabile  discrasia  di  contenuto,
finalita' e ratio tra le restanti norme contenute nel decreto-legge e
la  disposizione  qui  censurata,  non  potendo   ravvisarsi   alcuna
strumentalita' tra la disposizione abrogatrice del delitto  di  abuso
d'ufficio e la necessita' di semplificare le procedure amministrative
volte a velocizzare gli investimenti. 
    Sotto tale profilo, va rilevato che la norma abrogatrice  oggetto
di scrutinio non appare diretta a fronteggiare uno o  piu'  specifici
eventi  eccezionali  in  relazione  a  situazioni  gia'  esistenti  e
bisognose  di  urgente   intervento   normativo,   essendo   diretta,
piuttosto,  a  delimitare  la  penale  responsabilita'  dei  pubblici
funzionari in relazione  all'attivita'  amministrativa  dagli  stessi
svolta: si tratta, quindi, di una normativa  «a  regime»,  del  tutto
slegata  da  contingenze  particolari,  inserita   tuttavia   in   un
decreto-legge denominato «misure urgenti  per  la  semplificazione  e
l'innovazione  digitale  (decreto  Semplificazioni)»;  il  che  trova
riscontro nell'assenza di qualsivoglia indicazione in tal  senso  nel
preambolo posto in epigrafe al decreto,  dove  vengono  enucleate  le
ragioni giustificatrici di tale intervento normativo d'urgenza. 
    Cio'  integra  una   palese   violazione   dell'art.   77   della
Costituzione:  la  disposizione   qui   censurata   appare   estranea
all'oggetto ed alla  ratio  del  decreto-legge  ed  assume  rilevanza
decisiva ai fini del giudizio. 
    Al   riguardo,   la   costante   giurisprudenza    della    Corte
costituzionale ha individuato, tra gli indici alla stregua dei  quali
verificare «se risulti evidente o meno la carenza del requisito della
straordinarieta' del caso di necessita' e d'urgenza  di  provvedere»,
la «evidente estraneita'» della norma censurata rispetto alla materia
disciplinata da  altre  disposizioni  del  decreto-legge  in  cui  e'
inserita  (Corte  costituzionale,  sentenza  n.  171  del  2007;   in
conformita', sentenza n. 128 del 2008). 
    La giurisprudenza  sopra  richiamata  collega  il  riconoscimento
dell'esistenza dei presupposti fattuali di cui all'art.  77,  secondo
comma, Cost., ad una intrinseca coerenza delle norme contenute in  un
decreto-legge, o dal punto di vista  oggettivo  e  materiale,  o  dal
punto di vista funzionale e finalistico. 
    In  quest'ottica,  l'urgente  necessita'  del   provvedere   puo'
riguardare una pluralita' di norme accomunate dalla  natura  unitaria
delle  fattispecie  disciplinate,  ovvero   anche   dall'intento   di
fronteggiare situazioni  straordinarie  complesse  e  variegate,  che
richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti  quindi  a
materie diverse, ma indirizzati all'unico scopo di approntare  rimedi
urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare. 
    Da quanto detto si trae la conclusione che la semplice immissione
di una disposizione nel corpo di un  decreto-legge  oggettivamente  o
teleologicamente unitario non vale a trasmettere, per cio' solo, alla
stessa il carattere di  urgenza  proprio  delle  altre  disposizioni,
legate tra loro dalla comunanza di oggetto o di  finalita':  infatti,
ai sensi  del  secondo  comma  dell'art.  77  della  Costituzione,  i
presupposti per l'esercizio senza delega della  potesta'  legislativa
da parte del Governo riguardano il decreto-legge nella sua interezza,
inteso come insieme di disposizioni omogenee per la materia o per  lo
scopo. 
    L'inserimento di norme eterogenee all'oggetto  o  alla  finalita'
del decreto spezza il  legame  logico-giuridico  tra  la  valutazione
fatta dal Governo dell'urgenza del  provvedere  ed  «i  provvedimenti
provvisori con forza di legge»,  di  cui  alla  norma  costituzionale
citata. 
    Il presupposto del «caso» straordinario di necessita'  e  urgenza
inerisce sempre e soltanto al  provvedimento  inteso  come  un  tutto
unitario, atto normativa fornito di  intrinseca  coerenza,  anche  se
articolato e differenziato al suo interno. 
    D'altro canto, se cosi' non fosse,  la  scomposizione  atomistica
della  condizione  di  validita'  prescritta  dalla  Costituzione  si
porrebbe in contrasto con il necessario legame tra  il  provvedimento
legislativo  urgente  ed  il  «caso»  che  lo  ha  reso   necessario,
trasformando il decreto-legge in una  congerie  di  norme  assemblate
soltanto da mera casualita' temporale (Corte cost. sentenza n. 22 del
2012). 
    Non a caso, l'art. 15, comma 3, della legge 23  agosto  1988,  n.
400  (Disciplina  dell'attivita'  di  Governo  e  ordinamento   della
Presidenza del Consiglio dei ministri) - la' dove  prescrive  che  il
contenuto  del  decreto-legge  «deve  essere  specifico,  omogeneo  e
corrispondente al titolo» - pur non avendo, in se' e per  se',  rango
costituzionale,  e  non  potendo  quindi  assurgere  a  parametro  di
legittimita' costituzionale, costituisce esplicitazione  della  ratio
implicita nel secondo comma dell'art. 77 della Costituzione, il quale
impone   il   collegamento   dell'intero   decreto-legge   al    caso
straordinario di necessita' e urgenza, che ha indotto il  Governo  ad
avvalersi  dell'eccezionale  potere   di   esercitare   la   funzione
legislativa senza previa delegazione da parte del Parlamento. 
    A fronte di  cio',  la  disposizione  qui  censurata  non  appare
riconducibile alla ratio unitaria di semplificare  in  via  d'urgenza
l'azione  amministrativa,  i  cui  termini  ordinari  di  svolgimento
dell'iter procedimentale sono risultati  dannosi  per  gli  interessi
ritenuti  rilevanti  dal  Governo  tanto  da  richiedere   interventi
giudicati indifferibili. 
    Cio' rende evidente il contrasto della  citata  disposizione  con
l'art.  77  della  Costituzione  in  ragione  della   commistione   e
sovrapposizione, nello stesso atto  normativo,  di  norme  aventi  ad
oggetto finalita' eterogenee  e  che  affondano  le  loro  radici  in
presupposti, a loro volta, affatto diversi tra loro. 
    A tali  rilievi,  gia'  di  per  se'  assorbenti,  vale  la  pena
aggiungere un ulteriore ordine di considerazioni. 
    In definitiva, la  disposizione  qui  censurata  appare  estranea
all'oggetto ed alla  ratio  del  decreto-legge  ed  assume  rilevanza
decisiva ai fini del giudizio. 
3.2.  Violazione  dell'art.  77  della  Costituzione:   assenza   del
requisito della necessita' e  dell'urgenza  per  quanto  concerne  la
riforma del delitto di abuso d'ufficio. 
    Fermi tali assorbenti rilievi,  appare  altresi'  evidente  come,
quand'anche si volesse ritenere l'omogeneita' delle  norme  impugnate
rispetto al contenuto  ed  alla  ratio  del  decreto-legge,  dovrebbe
allora sindacarsi la sussistenza, per le nuove norme introdotte,  dei
citati requisiti di necessita' e di urgenza,  essendo  evidente  come
rispetto ad una depenalizzazione l'eccezionale urgenza di  provvedere
non  possa  essere  realisticamente  postulata  se  non  in   ipotesi
residuali, nella specie del tutto insussistenti. 
    Le considerazioni che precedono rendono evidente  il  difetto  di
tale requisito. 
    Va, al riguardo, rilevato che la  Corte  costituzionale,  con  la
sentenza n. 171 del 2007, ha ritenuto che non e' possibile  sottrarre
il  decreto-legge  al  sindacato  di  legittimita'  per  difetto  del
presupposto  della  necessita'  ed  urgenza   a   causa   della   sua
conversione, giacche' «affermare che la legge di conversione sana  in
ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire  in  concreto
al  legislatore  ordinario  il  potere   di   alterare   il   riparto
costituzionale delle competenze del Parlamento e del  Governo  quanto
alla produzione delle fonti primarie». 
    Sulla base di questa giurisprudenza costituzionale si  e'  quindi
ritenuto che tutte le disposizioni di un decreto-legge devono  essere
ancorate al  presupposto  del  caso  straordinario  di  necessita'  e
urgenza che legittima l'esercizio del potere legislativo senza delega
da parte del Governo. 
    D'altra parte, l'estraneita' di taluna di dette disposizioni alla
disciplina  cui  il  presupposto  della  necessita'  e   urgenza   si
riferisce, sarebbe  segno  evidente  della  carenza  del  presupposto
stesso, che non puo' essere sanata dalla conversione del decreto. 
    In altri termini, le disposizioni del decreto-legge convertito  -
tutte le disposizioni in esso contenute - devono essere assistite dai
requisiti   della   straordinaria   necessita'   e   urgenza,    pena
l'illegittimita' di quelle che ne sono prive. 
    Nel caso in esame, pertanto, qualora si  ritenesse  infondata  la
questione  di  legittimita'  costituzionale  qui  sollevata  in   via
principale,  dovrebbe  svolgersi  il  sindacato  di  sussistenza  del
necessario requisito della necessita'  ed  urgenza  sulla  norma  qui
censurata;  necessita'   ed   urgenza,   nella   specie   palesemente
insussistenti, tenuto conto dei fisiologi  tempi  di  svolgimento  di
qualsivoglia procedimento penale e della totale assenza di  incidenza
di singole vicende penali sul piano della semplificazione dell'azione
amministrativa. 
    Emblematica  e'  in  tal  senso  l'assoluta   mancanza   di   una
motivazione contenuta nel preambolo  dell'atto  normativo  in  ordine
alla straordinaria necessita' che rendeva urgente, in  quel  momento,
la riscrittura del delitto di abuso d'ufficio, a riprova dell'assenza
di  qualsivoglia  plausibile  ragione  o  giustificazione   posta   a
fondamento dell'intervento normativa d'urgenza. 
3.3. Violazione degli articoli 3 e 97 della Costituzione. 
    Oltre  alle  ritenute  criticita'  afferenti  la   procedura   di
approvazione, la disposizione qui censurata  pone  anche  del  merito
dubbi di legittimita' costituzionale. 
    Come e' noto, il reato di abuso d'ufficio  e'  posto  a  presidio
dell'interesse pubblico al buon andamento, all'imparzialita' ed  alla
trasparenza  della  pubblica  amministrazione,  che  costituisce   un
aspetto  costituzionalmente  garantito  rispetto   al   comportamento
illegittimo ed ingiusto del pubblico ufficiale. 
    Tale rilievo  rende  palese  ed  evidente  il  contrasto  tra  la
finalita' che ha animato l'adozione del decreto-legge - ossia  quella
di semplificare l'azione amministrazione «operando senza  pregiudizio
per i presidi di legalita'», cosi' come indicato nel preambolo - e la
norma  qui  censurata  che,  rispetto  a  tale  finalita',  opera  in
direzione  diametralmente  opposta,  andando  ad  incidere   su   una
disposizione posta ad  imprescindibile  presidio  della  salvaguardia
della legalita' dell'azione amministrativa. 
    L'aver ancorato la condotta tipica alla violazione «di specifiche
regole di condotta espressamente  previste  dalla  legge  o  da  atti
aventi forza  di  legge  e  dalle  quali  non  residuino  margini  di
discrezionalita'» ha  come  conseguenza  che  l'abuso,  per  assumere
rilievo penale, si deve  risolvere  nell'inosservanza  di  un  dovere
vincolato  nell'an,  nel  quid  e  nel  quomodo  dell'attivita':  per
l'appunto, senza «margini di discrezionalita'» in alcuno dei  momenti
qualificanti il comportamento definito dalla  legge  e  dall'atto  ad
essa equiparato. 
    Una   tale   indicazione   normativa   snatura   la   fattispecie
incriminatrice,   trasformandola   in   un   reato   legislativamente
«impossibile». 
    La  citata  deposizione  appare  solo  all'apparenza  diretta   a
specificare, in senso piu' pregnante e tassativo, il contenuto  della
condotta tipica, finendo, di fatto, per operare  una  sostanziale  ed
integrale depenalizzazione  dell'intera  fattispecie  incriminatrice:
infatti, tenuto conto  della  clausola  di  sussidiarieta'  contenuta
nella citata disposizione («salvo che il fatto non  costituisca  piu'
grave reato»), appare  evidente  come  l'inosservanza  di  un  dovere
vincolato integri gia' di  per  se'  un  diverso  reato  (l'omissione
d'atti d'ufficio in caso di condotta omissiva, il  falso  conseguente
al compimento di un atto in difetto dei presupposti necessari, ovvero
un diverso abuso di autorita' specificamente previsto). 
    In realta', i casi in cui la legge determina il se, il cosa ed il
come di una condotta imposta ad un  agente  pubblico  sono  non  solo
rari, ma attinenti ad una sfera minuta dell'attivita' amministrativa. 
    In effetti, il requisito inserito nella fattispecie  («...  dalle
quali non residuino margini di discrezionalita'») si  configura  come
un vero e proprio elemento negativo del  fatto,  la  cui  sussistenza
viene in radice meno  se  tale  elemento  (il  potere  discrezionale)
ricorre. 
    In pratica, il legislatore ha riservato la  rilevanza  penale  ad
una improbabile e del tutto marginale casistica (quella degli atti  a
forma integralmente vincolata), rendendo, di  fatto,  prive  di  ogni
rilievo le condotte, ben piu' gravi,  di  coloro  che,  detenendo  il
potere di scegliere discrezionalmente, si  trovano  nella  condizione
privilegiata per abusarne. 
    L'idea di privare  di  rilevanza  penale  ogni  aspetto  connesso
all'esercizio di discrezionalita' amministrativa rappresenta, di  per
se',  una  flagrante  violazione  del   principio   di   uguaglianza,
risolvendosi nell'attribuzione, in capo all'agente  pubblico,  di  un
potere dispositivo assoluto e sottratto al vaglio giudiziale. 
    Cosi' facendo, la  disposizione  qui  censurata,  equiparando  il
pubblico agente ad un privato, pone  sullo  stesso  piano  situazioni
affatto diverse: il potere discrezionale attribuito  al  primo  e  la
facolta' di disposizione riconosciuta al secondo rispetto ad una cosa
di cui sia proprietario; il tutto in palese violazione del  principio
di  uguaglianza,  da  un  lato,   e   della   legalita'   dell'azione
amministrativa, dall'altro. 
    Si tratta di un'equiparazione inammissibile volta  ad  uniformare
sotto la stessa disciplina situazioni radicalmente ed ontologicamente
diverse,  con  l'ulteriore  vulnus  per  il  principio  di  legalita'
dell'azione amministrativa. 
    Da qui l'ulteriore dubbio di  legittimita'  costituzionale  della
disposizione qui censurata in relazione agli articoli 3  e  97  della
Costituzione. 
4. Sull'ammissibilita' della questione. 
    E' appena il caso di evidenziare la  piena  ammissibilita'  della
proposta  questione  di  legittimita'  costituzionale,  ancorche'  la
stessa,  ove  accolta,  determinerebbe  la  caducazione  della  norma
abrogatrice e,  di  conseguenza,  la  reviviscenza  della  previgente
disciplina con inevitabili effetti in malam partem. 
    Al riguardo, la costante e risalente giurisprudenza  della  Corte
costituzionale, sin dalla sentenza n. 148 del 1983, ritiene  che  gli
eventuali effetti in malam partem di una decisione  della  Corte  non
precludono  l'esame  nel  merito  della  normativa  impugnata,  fermo
restando il divieto per la Corte (in virtu' della  riserva  di  legge
vigente in materia penale, di cui all'art. 25 della Costituzione)  di
«configurare nuove norme penali» (sentenza n. 394  del  2006),  siano
esse incriminatrici o  sanzionatorie,  eventualita'  questa  che  non
rileva nel presente giudizio, dal momento che  l'eventuale  decisione
di  accoglimento  non  farebbe  altro  che  rimuovere  gli   ostacoli
all'applicazione di una disciplina stabilita dal legislatore. 
    Infatti, il controllo di  legittimita'  costituzionale  non  puo'
soffrire  limitazioni,  se  ritualmente  attivato  secondo  le  norme
vigenti, ed effetti  delle  sentenze  di  accoglimento  nel  processo
principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo
i principi generali che reggono la successione nel tempo delle  leggi
penali. 
    Va pertanto sollevata questione  di  legittimita'  costituzionale
delle suddette disposizioni e norme, nei limiti, sotto  i  profili  e
nei termini sopra specificati. 
    Il giudizio deve  essere  sospeso  sino  all'esito  del  giudizio
incidentale di legittimita' costituzionale.